Minnesota Timberwolves: dubbi e certezze per la stagione della verità

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Si dice che per rialzarsi è necessario toccare il fondo e che per vederci meglio occorre stare al buio. Si dice però che non ci sia mai fine al peggio e che se ti abitui a stare nel fango sarà molto più complicato spiccare il volo da terra. I Minnesota Timberwolves in fondo ci sono arrivati, il buio lo stanno vedendo e nel fango ci stanno navigando da ormai troppi anni. Quello che adesso ci si chiede è se sia arrivato finalmente il momento di rialzarsi oppure se il declino verticale della franchigia debba inesorabilmente continuare.

A Minneapolis hanno visto nascere la franchigia nel 1989, franchigia che ha assaporato per la prima volta i playoff solo nel 1995 quando un certo Kevin Garnett è riuscito ad innalzare quel livello di mediocrità che vigeva negli anni precedenti. “The Big Ticket” è stata la sola ed unica superstar capace di mantenere i Wolves nelle posizioni nobili della classifica raggiungendo addirittura le finali di conference nel 2003-2004.
Da quel momento è iniziata una discesa inesorabile che li ha portati, numeri alla mano, ad essere la peggior franchigie NBA. I Wolves infatti “vantano” il primato di peggior percentuale di vittorie (39,4%) dalla loro fondazione.

Confusione societaria in un periodo di stravolgimenti

Sono passati diversi giocatori, sono arrivate numerose scelte alte nei vari Draft ma nessuno è mai riuscito ad invertire il trend di questa franchigia. Si sa però che spesso, quando i problemi sono così cronici, la soluzione va trovata alla radice dell’organizzazione. A Minneapolis infatti sono impegnati in una complicata fase di transizione. Il proprietario Glen Taylor ha deciso di trasferire, nei prossimi due anni, il controllo della franchigia ai nuovi acquirenti Marc Lore e Alex Rodriguez.

Come se non bastasse, pochi giorni prima del training camp, la dirigenza ha deciso di sollevare dall’incarico il presidente delle Basketball Operation Gersson Rosas che non ha certo brillato durante il suo mandato. Ciò che stupisce è il fatto che il sostituto designato sia Sachin Gupta, ex vicepresidente delle Basketball Operation. La scelta di Gupta pare però essere avvenuta in totale emergenza e che la dirigenza stia cercando disperatamente un sostituto esterno alla franchigia.

Tutto ciò ha portato solo ulteriore confusione all’interno dell’organizzazione. Confusione riassunta perfettamente da un post di Towns che con sole 3 lettere è riuscito ad esprimere l’area che tira in quel di Minneapolis.

Towns: il perfetto rappresentante della franchigia

Karl Anthony Towns altro non è che il volto di questa franchigia, colui che meglio la rappresenta sia in campo che al di fuori. K.A.T ha dentro di se tutti gli aspetti e le peculiarità che hanno caratterizzato gli ultimi anni di storia dei Timberwolves. Scelto alla numero 1 da Minnesota nel 2015 ha sin da subito preso le sembianze dell’ancora di salvezza per l’associazione. Un centro moderno, giovane, lunghissimo e con una tecnica ed un range di tiro degno di una guardia. Un giocatore come se ne sono visti raramente, con una velocità di piedi da ballerino che pareva essere pronto a stravolgere la Lega.
Purtroppo, quando arrivi ai livelli massimi di qualsiasi sport, la pura tecnica e il puro talento non bastano se non sono accompagnati da una mentalità forte che ti spinge a lavorare ogni giorno per migliorarti.

Le qualità non sono mai state messe in discussione (se non la poca applicazione difensiva) ma Towns, così come la franchigia che lo ha selezionato, non è ancora riuscito a fare quel balzo di mentalità e a mettersi in discussione come fa ogni superstar. La prova di tale atteggiamento ce l’ha fornita Jimmy Butler (forse il più grande agonista della lega) che nel 2017 ha contribuito al raggiungimento dei play-off salvo poi esplodere all’interno dello spogliatoio forzando la trade. Il motivo? Non riteneva la squadra e la franchigia al pari della sua durezza mentale.

Towns rappresenta la franchigia anche nell’incredibile sfortuna che l’ha perseguitato negli ultimi anni e che non ha dato supporto al suo sviluppo. Una serie di infortuni fisici lo hanno limitato due stagioni fa, prima dell’avvento di quel Covid-19 che in pochi mesi gli ha portato via diversi parenti e, soprattutto, quella madre ritenuta la persona più importante della sua vita. Dopo una lunga fase di sconforto e depressione, sembra poter essere arrivato il momento di rialzare la testa, di riprendere a vivere e di farlo con la cosa nella quale riesce meglio: la pallacanestro. Tali vicende rappresentano sicuramente degli snodi chiave all’interno del percorso di una persona e solo il tempo ci dirà se KAT avrà una reazione positiva o negativa alle avversità che la vita gli sta ponendo davanti.

Russell e Edwards: il momento di diventare grandi

Al suo fianco, a supportarlo nella risalita, avrà due giovani scudieri che devono mostrare di poter essere All-Star contribuendo a fornire quanto meno dignità alla franchigia di Minnesota.
Il primo è D’Angelo Russell, il playmaker arrivato da Golden State nello scambio con Andrew Wiggins (altra prima scelta dal rendimento discutibile). Russell, nonostante la giovane età ha alle spalle una carriera altalenante e piena di cambi di rotta. Ha esordito nella lega negli ultimi Lakers di Kobe con il fardello di doverne prendere parte dell’eredità. Dopo due anni al di sotto delle aspettative si è trasferito in quel di Brooklyn dove ha rappresentato il faro di una squadra molto diversa da quella attuale ma che ha raggiunto miracolosamente i playoff.

Scaricato dai Nets dopo l’arrivo di Irving è stato parcheggiato pochi mesi a Golden State consapevole però di essere solo di passaggio e quindi poco motivato nel far bene. A metà della stagione 2019-2020 ha raggiunto il suo amico d’infanzia Towns con la speranza che il loro legame fuori dal campo si tramutasse in qualcosa di magico anche all’interno del parquet. Questa scintilla ancora non è scoccata anche a causa di alcuni infortuni che hanno limitato Russell a giocare solo 42 partite stagionali.

Chi di partite non ne ha saltata nemmeno una è Anthony Edwards, la prima scelta assoluta dello scorso Draft che ha vissuto una stagione controversa ma conclusasi in crescendo. 72 gare in cui ha mostrato un progressivo miglioramento nella gestione offensiva, nella scelta dei tiri e nell’applicazione difensiva. Le qualità tecniche e soprattutto fisiche non sono in discussione, come dimostrano gli higlights della sua stagione: due schiacciate detonanti che non dovrebbero appartenere al bagaglio di una guardia che non raggiunge il metro e novanta. I 19.2 punti di media nell’anno da rookie in una squadra allo sbaraglio dimostrano come mettere punti a referto non sia un problema.

Gioventù al potere, mossa vincente o azzardo?

Towns, Russel e Edwards sono chiamati a dare la svolta alla loro carriera e alla storia della franchigia in cui militano. Le qualità non sono in discussione, la chimica tra i 3 pare esserci e dovranno collegare i pensieri per riuscire a sollevare le sorti dei Wolves.
Ovviamente una squadra non si può basare solo su 3 giocatori ma ha bisogno di un supporting cast capace di valorizzare le proprie star e di sorreggerli nei momenti più difficili. Il potenziale c’è, alcuni ragazzi interessanti hanno evidenziato qualità non indifferenti come McDaniels e le sue innate doti nell’arte del difendere.

Osservando il roster dei Timberwolves si nota immediatamente come manchino, forse, delle figure di esperienza che guidino i giovani lungo le tortuose strade della NBA. Escluso Patrick Beverly (arrivato quest’anno dai Clippers) nato nel 1988, tutti gli altri componenti del roster non raggiungono i 27 anni con ben 12 giocatori nati dopo il 1998.

A guidare il gruppo viene riproposto sulla panchina Chris Finch, approdato a metà stagione scorsa al posto di Saunders. Per il nuovo coach si tratta della prima esperienza da capo allenatore dopo 10 anni passati a fare l’assistente a Houston, New Orleans, Denver e Toronto.

Futuro tra obblighi, obbiettivi e sogni

Società in ricostruzione, coach con poca esperienza ed un gruppo molto giovane non sono i migliori punti di partenza per provare ad uscire dal fango. Tre talenti come Towns, Russell ed Edwards non possono ogni anno giocare per arrivare ultimi e questo è cosa nota anche per loro. Sarà necessario quindi invertire il senso di marcia e provare fino alla fine a lottare per i play-in dato che, in una Western Conference molto competitiva, sarebbe utopico auspicare ad una posizione diretta ai playoff.

Basta poco per risvegliare quel calore che nella fredda Minneapolis non si sente ormai da tempo. L’obbiettivo deve essere quello di migliorarsi ogni anno, di creare valore per la franchigia e di mettere in condizione le 3 star di performare al meglio e di migliorarsi.