Utah Jazz: what’s next? Cosa manca per il grande salto

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A Salt Lake City c’è una certezza, si chiama Utah Jazz. Una squadra che, dopo gli incredibili 23 anni targati Jerry Sloan, la leggenda, l’icona NBA, sotto la cui guida i Jazz diedero vita ad una delle più affascinanti rivalità sportive degli anni novanta, quella contro i Bulls di Michael Jordan (due finali consecutive, entrambe vinte da “His Airness”), ha vissuto parecchi alti e bassi. Oggi, però, gli Utah Jazz di Coach Quin Snyder sono una realtà importante e consolidata all’interno della lega.
In cinque anni, da quando Snyder ha preso in mano le redini di comando della franchigia, la squadra è cresciuta progressivamente, evolvendo con calma e naturalità, acquisendo una caratteristica che manca a molte squadre NBA, persino ad alcune di primissima fascia: un’identità. Questa è data anche e soprattutto da un forte nucleo di giocatori internazionali – 3/5 del quintetto base non sono di nazionalità americana -, da una precisa idea di organizzazione sportiva e manageriale che le permette, oltre al resto, di collocarsi al di fuori dell’occhio del ciclone mediatico. Tutte caratteristiche che, a ben vedere, rendono Utah una sorta di San Antonio 2.0.

Utah è una squadra che sa cosa vuole in campo e sa come ottenerlo; è conscia dei propri limiti, dà sempre l’idea di seguire un comune spartito e molta della sua fortuna la ricava da un’ottima (a tratti straordinaria) organizzazione difensiva (non a caso Rudy Gobert è stato eletto difensore dell’anno per la stagione 2017-2018). Dall’all-star game in poi, i Jazz sono stati la miglior difesa della Lega (104.8 di defensive rating), il terzo miglior attacco, dietro a Houston e Portland, e la seconda miglior difesa se si considera l’intera stagione regolare (primi i Milwaukee Bucks).

Ogni anno i ragazzi di Snyder tendono a fare una seconda parte di stagione migliore della prima; hanno raggiunto in due occasioni il traguardo delle 50 vittorie, e da tre anni consecutivi centrano la qualificazione alla post season – quest’anno come quinti con un record di 50-32 -, ascrivendosi di diritto tra l’élite della super competitiva Western Conference. Insomma, un’ottima squadra con un validissimo allenatore, un sistema definito e dei giocatori funzionali ad esso. Eppure, i playoffs sono stati una condanna senza appello: fuori 4-1 contro gli Houston Rockets.

Houston, abbiamo un problema

Proprio come l’anno scorso Utah conclude la sua stagione perdendo sonoramente 4-1 contro i Rockets, con l’unica differenza che quest’anno l’eliminazione è avvenuta un turno prima. La serie è stata, in realtà, più aperta di quanto il risultato non dica, fatta eccezione per le prime due gare giocate in casa dei Rockets, in cui i Jazz sono apparsi “deficitari” sotto ogni punto di vista (122-90 in gara 1, 118-98 in gara 2, entrambe in favore del Barba). In Gara 3 Utah non è riuscita a sfruttare la pessima serata al tiro di James Harden (3/20, la terza peggior percentuale in 30 anni ai playoffs) ed ha sbagliato l’incredibile cifra di 13 tiri liberi, rendendo così vani i 34 punti di Donovan Mitchell. Vinto agevolmente il quarto episodio della serie, i Jazz anche in Gara 5 sono rimasti attaccati agli avversari fino alla fine, arrivando ad un punto di svantaggio nell’ultimo minuto di gioco. Il poderoso sforzo difensivo – Harden ha avuto bisogno di 26 tiri per fare 26 punti – non ha avuto un giusto corrispettivo nell’altra metà campo: i ragazzi di Quin Snyder hanno tirato col 37% dal campo e col 24% dalla linea dei tre punti, per non menzionare, poi, l’orribile serata al tiro di Mitchell che ha chiuso con 4/22 e 12 soli punti.

Chi ha visto la serie avrà sicuramente ancora negli occhi il tipo di difesa che Utah ha messo in campo per limitare l’MVP dalla folta barba. Un “cordiale invito” fatto al numero 13 ad andare dentro l’area ad ogni inizio azione, così da impedirgli, anche solo idealmente, di prendere ritmo attraverso il suo tiro preferito, lo step back three – in realtà lo avevamo già visto fare ai Bucks in questa stagione, e con buoni esiti. Una scelta discutibile, bizzarra, sicuramente estrema che, come era prevedibile, ha suscitato la derisione di molti, ma che in parte ha funzionato (vedasi le percentuali di Harden di cui sopra). Comunque la si veda, non è stato certo questo a far perdere Utah – per quanto si possa provare a limitare Harden, il barba ha troppe frecce nel suo arco per non essere decisivo comunque – quanto piuttosto le limitate opzioni e pericolosità offensive. Tuttavia i Jazz hanno poco da recriminarsi, semplicemente, sono usciti contro una squadra più forte e talentuosa. Se il tabellone ad Ovest fosse stato più clemente, forse Mitchell e compagni sarebbero ancora lì a giocarsi un posto per accedere alle finali di Conference.

Il salto di qualità

La serie con Houston ha dimostrato ciò che già si sapeva, il vero punto debole di Utah è l’attacco, o per meglio dire, la mancanza di giocatori di comprovato talento nella metà campo offensiva. Al momento l’unico attaccante puro in squadra è Donovan Mitchell, ma il ragazzo da Louisville, che ha fatto gran parlare di sé la scorsa stagione – sfiorando il premio di rookie dell’anno -, non può ancora essere il giocatore che trasforma una buona/ottima squadra in una squadra da titolo. “Spida”, così come è stato soprannominato, è appena al secondo anno nella lega e sebbene il talento esplosivo di questo ragazzo sia tutto lì da vedere, necessita inevitabilmente del giusto tempo per diventare il giocatore che Utah si aspetta che sia – deve necessariamente migliorare la sua affidabilità dall’arco e soprattutto nella comprensione del gioco, visto che è lui in molte occasioni il playmaker della squadra.

Il “supporting cast” dovrà essere in futuro qualitativamente più valido. I vari Rubio (che potrebbe aver finito la sua esperienza nello Utah, sarà free agent in estate), Ingles, Favors, Crowder – escludiamo Gobert per la sua impareggiabile importanza nell’altra metà campo -, sono tutti assolutamente validi e funzionali al sistema ideato da Snyder, ma nessuno tra questi spicca per doti offensive. Servirebbe, forse, l’innesto di maggiori e migliori tiratori da 3 punti, o di qualche giocatore forte da inserire nella second unit o che possa guidarla, oppure, più banalmente, tentare il reclutamento di qualche all-star (cosa non così semplice), la cui presenza è sporadica nello Utah, l’ultimo è stato Gordon Hayward 3 anni fa.

Le premesse a Salt Lake City ci sono tutte affinché nei prossimi anni i tifosi dei Jazz possano tornare ad assaporare quelle atmosfere estive, sinonimo di finali, vissute con Jerry Sloan. Manca davvero poco per completare il puzzle, per far girare quel’ingranaggio che faccia funzionare il meccanismo perfettamente. Purtroppo, per quanto sia facile a dirsi, molte squadre ci hanno dimostrato in passato come questo passaggio sia il più delicato nella NBA; tante, arrivate a questo punto, hanno fallito. Utah, però, ci deve almeno provare.